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Leggendo

La cotogna di Istanbul

30 Settembre 2022
Copertina del libro "La cotogna di Istanbul" di paolo Rumiz

Rumiz ci prende per mano e ci porta in cammino
da Vienna a Istanbul, passando per Sarajevo.
La cotogna di Istanbul edito da Feltrinelli

Potrei fare una classifica dei libri di Paolo Rumiz? Mi chiedo. No. Mi rispondo. Me la faccio e me la dico perché in realtà avrei potuto portare qua qualunque altro suo libro, ma alla fine ho scelto La cotogna di Istanbul perché, in fondo, li racchiude un po’ tutti (o quasi).
È una ballata. Dice il sottotitolo. Ed è vero perché il ritmo del verso incita alla cadenza, al movimento, all’ondeggiare.
Ma io l’ho vissuto più come un sogno, un dormiveglia, in cui reale e onirico si diffondevano, si intrecciavano, si dissolvevano. Tanto era potente, e tanto era a tratti surreale, la storia narrata.
Prima di continuare nella lettura, fai un salto qua. Ti aspetto, vai pure.

Žute dunje sono le gialle mele cotogne disegnate sulla copertina del libro. La canzone è una sevdalinka (una parola che solo a pronunciarla mi vengono le lacrime agli occhi e mi ritrovo a camminare fra le strade di Tuzla o di Mostar nelle fresche e scure sere autunnali del 2005). Si tratta di un genere musicale popolare diffuso in tutti gli stati della ex Jugoslavia, sorto in Bosnia ed Erzegovina, e da sempre lì suonato e cantato, tanto da sempre che non si sa chi ha scritto molte di queste canzoni. Il filo conduttore di questa musica è la malinconia. Perché? Ora ti spiego. Attenzione che si parte da lontano. Dalla parola turca sevda, che deriva dalla parola araba sawda: bile nera. Malinconia deriva dal greco antico melankholía, un composto di mélas, nero, e kholḗ , bile: bile nera. Chiuso il cerchio.

Prima parte del testo della canzone "Žute dunje", all'interno del libro "La cotogna di Istanbul"
Prima parte del testo della canzone “Žute dunje”

E insomma, anche se non capisci le parole, in queste sevdalinke percepisci il desiderio di amare e l’ostacolo che impedisce l’amore, in un misto continuo di gioia e poi di sofferenza, di avvicinamento seguito subito dall’allontanamento. In questa musica che si innalza da lontano, e porta con sé spezie ottomane restituite dal vento e ingredienti sefarditi, cresciuti in Spagna e maturati in Bosnia.
Bene, se la canzone non ti è piaciuta, puoi smettere di leggere. Perché quella canzone è il fulcro de La cotogna di Istanbul: da lì tutto si emana e si espande, e lì tutto ha ritorno.

Sarajevo, Vienna, Trieste, Istanbul, Budapest, Stiria, Atene: una carta geografica che per me è una carta dell’anima. Luoghi e volti che mi appartengono. O forse io appartengo a loro.
Il centro di tutto potrebbe essere Sarajevo. Sì, potrebbe. Lo lascio decidere a te, perché ci sono altri nomi che si contendono questo primato. Il Kahlenberg, un colle a pochi chilometri da Vienna. Vienna, la capitale dell’impero. Istanbul, la capitale di un altro impero. Trieste, la capitale dei miei pensieri.
Unisci questi luoghi con il passo cadente del verso. Quel verso endecasillabo che a scuola frega tutti: non è un verso con undici sillabe, ma è un verso il cui accento tonico cade sulla decima sillaba. E così tieni il ritmo, con il passo, con il battito del cuore. Troverai la bellezza del cammino, la sua lentezza e la possibilità di scoperta che si svela fra i passi e i respiri.
Camminerai lungo le strade percorse dall’amore fra Max e Maša, soffiato per la prima volta fra la neve di Sarajevo e condotto fino alle rive del Bosforo, attraverso le vene profonde dei Balcani.
Cammini e scavi. Cammini e lasci il tuo passo impresso nella terra. Cammini e piangi. Cammini e bevi. Cammini e mangi. Cammini e abbracci. Cammini e poi ritorni.


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