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Scrivendo

Srebrenica, Argentaria

9 Luglio 2023
Srebrenica acqua argento genocidio

Nella città dell’acqua e dell’argento

C’erano le miniere di argento. Argentaria era il suo antico nome latino. La città argentata.
C’erano le acque termali. Ed era conosciuta per le proprietà terapeutiche di quelle acque. La città delle acque.
Immagina l’incanto del luogo. Una verde vallata protetta dalle montagne dei Balcani. Il fiume che con il suo scorrere la determina. La città che pian piano prende forma, cresce e accoglie, nelle sue bellezze e nelle sue ricchezze.
Ora mantieni questa immagine.
Ancora.
Ecco, ora in questa immagine non ci sono più quelle acque benefiche. Toglile.
Ora non ci sono più nemmeno le ricche miniere. Toglile.
Ora nessuno ricorda più quelle acque e quelle vene.
Ora quella vallata è intrappolata fra le sue montagne, non è più protetta dalle montagne.
Ora, è l’estate del 1995, la guerra è iniziata più di tre anni fa e Srebrenica ha accolto migliaia di musulmani in fuga da tutti i territori bosniaci limitrofi conquistati dai soldati serbo-bosniaci.
Ora il ricordo di Srebrenica porta al genocidio compiuto lì l’11 luglio 1995 e nei giorni successivi.

Sabato 9 luglio 2005

Sono passati 10 anni da quei giorni infernali. E io sono lì.
La cerimonia di commemorazione del genocidio è dopodomani.
Stanno per arrivare da Tuzla i camion che trasportano le 600 bare che saranno sepolte
fra due giorni nel Memoriale di Srebrenica.
Li vedo arrivare. Rallentare.
Le vedo.
Guardo chi mi sta attorno e in quegli occhi trovo il dolore infinito.
Qualche mese dopo avrei scritto questo

Mi sento profondamente debole, e inutile. Osservo i giornalisti, che come iene
si stanno posizionando aspettando il momento adatto per attaccare. Che rabbia.
Mentre attendiamo l’arrivo delle bare, Teufik, accanto alla tomba del padre,
ci sta raccontando come si è svolto il funerale, tre anni prima. Teufik ha solo
due anni meno di me, nel 1995 ne aveva 13, forse per questo si è salvato:
quel giorno furono sequestrati tutti gli uomini musulmani dai 15 anni in su.
Ahmed ha la stessa età di Teufik, e in questo momento non è con noi, sta camminando
da solo in giro per il memoriale: suo padre non è stato ancora sepolto, non è stato nemmeno identificato. Stessa sorte per suo fratello maggiore. Suo zio, invece,
verrà sotterrato tra due giorni, e ora sta arrivando da Tuzla, assieme ad altre 599 bare, piccole e leggere, che non contengono salme, ma resti di corpi brutalmente uccisi proprio dieci anni fa, esattamente qua: il memoriale è stato voluto nello stesso posto dove
è avvenuto il genocidio.
Mi guardo attorno: i verdi boschi mi spaventano. E poi il vento, il cielo grigio:
l’atmosfera è terribilmente triste.
Non riesco a capacitarmi che proprio qui dove mi trovo ora, sia stato commesso il primo genocidio sul suolo europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Srebrenica,
enclave musulmana protetta ufficialmente dai caschi blu dell’ONU durante gli anni
della guerra in Bosnia Erzegovina, era stata conquistata dalle truppe serbo-bosniache comandate dal generale Mladic il pomeriggio dell’undici luglio del 1995. Quella mattina, migliaia di uomini, donne, bambini e anziani musulmani implorarono l’aiuto dei caschi blu di stanza nella vecchia fabbrica di batterie di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica.
Il soccorso venne negato: quei caschi blu olandesi furono taciti complici nel massacro.
Allora mi chiedo se quel giorno, dieci anni fa, a Srebrenica (nel cuore dell’Europa Unita)
ci sia stata una manifestazione dell’inferno sulla terra, dell’odio puro e ingiustificato,
del male assoluto. E credo di sì, che l’orrore di quelle giornate e quella crudeltà spietata
non siano comprensibile né al cuore né all’intelletto umano.
Inizia a piovigginare, a Srebrenica, e Teufik sussurra “È il cielo che piange con noi”.
E tutto è ancora più doloroso.
Fuori dal memoriale, centinaia di persone aspettano. Sono perlopiù donne: molte di loro, dieci anni fa, hanno perso il nonno, il padre, il marito, i fratelli, i figli, gli zii, gli amici.
E ora attendono. Fra quelle 600 bare ci sono sicuramente i resti di un parente:
le spoglie ritrovate nelle fosse comuni dove più di 8.000 cadaveri furono barbaramente gettati nel tentativo di occultare il crimine commesso. Il riconoscimento delle ossa ritrovate è un procedimento lungo e difficoltoso, ma necessario per i parenti delle vittime:
solo una volta che i resti vengono identificati tramite il test del DNA, e restituiti
alla famiglia, questa può cominciare il processo di elaborazione del lutto.
Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. Osservandoli, si percepiscono questa tristezza
e un’immensa dignità. E urlano quegli occhi, perché le parole, qui, sono inutili.
La vergogna di chi ha permesso che tutto questo accadesse non dovrebbe nemmeno aleggiare nell’aria, qua. Non è più il tempo delle scuse né del perdono: chi ha vissuto
il male di Srebrenica può solo convivere con il dolore.
E tutti noi dobbiamo rimanere in silenzio.

Ricordati che Srebrenica si legge “Srebreniza”.

Durante quei giorni a Srebrenica scattai alcune foto. Poche, a dir la verità. E perdipiù analogiche.
Foto che non mi sento di condividere qua. Preferisco che siano le parole a raccontarvi quello che è successo là.
Ma dovevo inserire una foto nell’articolo, e non riuscivo a trovarne una adatta. Alla fine ho scelto questa foto scattata pochi mesi fa su un treno. Rappresenta molto bene come mi sentivo quando sono rientrata dalla Bosnia Erzegovina: trasparente.

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